La Cengia degli Dei è un grandioso itinerario alpinistico nel cuore delle selvagge Alpi Giulie che permette di aggirare in quota l’intero gruppo dello Jof Fuart tramite un incredibile susseguirsi di cenge aggettanti nel vuoto più pauroso. Questo magico anello, individuato agli inizi del 900 da Julius Kugy, sicuramente il più grande conoscitore di questo montagne, fu percorso per la prima volta nel 1930 dal famoso scalatore triestino Emilio Comici. Si tratta di un itinerario impegnativo ed esigente non tanto per le difficoltà alpinistiche dei singoli passaggi ma per la difficoltà di orientamento e per il grandioso e selvaggio ambiente in cui si svolge.
Proprio queste caratteristiche fanno della Cengia degli Dei un percorso molto ambito solo raramente ripetuto da qualche guida locale.
Questa cengia è stata per anni l’ossessione segreta di Nicola Narduzzi, un bravo e giovane alpinista di Fagagna (UD), che proprio alla fine di una delle estati più piovose e disgraziate degli ultimi decenni (2014) ha voluto dare vita al suo sogno percorrendo integralmente questo spettacolare percorso.
Ringrazio Nicola per aver voluto condividere con i lettori di questo blog questa sua autentica avventura dal sapore d’altri tempi.
L’eterno girotondo by Nicola
Le volute di fumo si innalzano dalla sigaretta fino a perdersi nell’oscurità che mi circonda. Solo una fioca luce filtra alle mie spalle dalla porta del rifugio, unico faro di salvezza nella notte della Carnizza di Camporosso. Appoggiato alla balaustra in legno osservo le luci di Valbruna brillare laggiù, lontane nel fondo della valle. Sulla destra il profilo della Cima dei Cacciatori è reso nitido dalle nubi rischiarate sopra Tarvisio.
Mi ero ripromesso di non cascarci ancora. Solo pochi giorni fa, camminando nel fango sotto la pioggia battente, avevo deciso che ne avevo abbastanza della roccia, del meteo incerto, della montagna. Avevamo girato tutto il giorno, tra sole e temporali, lungo le cengie invase dai mughi delle Torri del Camp alla ricerca di una linea, se non asciutta, quantomeno arrampicabile. Lungo un tiro che normalmente avrei liquidato in pochi minuti senza pensarci mi ero ritrovato paralizzato dall’angoscia, dalla paura di un piede che scivola, di farmi male. In fondo alla partenza mancava dannatamente poco. Non riuscivo più ad ignorare quello che per tutta l’estate avevo fatto finta di non vedere: un infortunio avrebbe significato rinunciare per sempre al percorso verso il mio posto nel mondo. Forse per quest’anno avevo tirato troppo la corda, forse era ora di dire basta. Eppure, meno di 24 ore dopo, una chiamata di Federico era bastata a farmi cambiare idea. La Cengia degli Dei ci aspettava.

L’ambiente grandioso delle Giulie (image credit latanadellorso)
Il problema, se così lo vogliamo chiamare, è quell’ambizione smisurata che mi brucia dentro. Se i primi anni essa era vincolata da un forte timore reverenziale per quelle montagne enormi e misteriose, man mano che la nutrivo con salite diventava sempre più forte. Ambizione, prezioso demone interiore, sorgente di sogni e frustrazioni: è per lei che sono qui, per soddisfarla con un ultimo, grande anello. Che si trattasse di escursioni, arrampicate o sciate, da quando ho iniziato ad andare in montagna il suo fuoco non mi ha mai fatto mancare gli obiettivi. Due su tutti, negli anni, sono diventati i miei frutti proibiti: il leggendario Diedro Cozzolino al Coritenza e la Cengia degli Dei al Fuart.
Le strade degli dei mi avevano catturato dal primo momento in cui ne avevo sentito parlare, leggendo di Emilio Comici, alto e sicuro nella casa di un Kugy ormai anziano per annunciargli di aver realizzato quell’anello da lui ipotizzato anni prima. Le poche informazioni reperibili su internet e dai pochi amici che l’avevano provata mi avevano sempre scoraggiato dal provare a percorrere questo lungo carosello nel cuore delle Giulie, eppure il desiderio rimaneva li, sempre presente, in attesa di quel giorno in cui avrei lasciato alle spalle timori e paure.

Sulla Cengia degli Dei (image credit: latanadellorso)
“Non è il posto più bello del mondo” Le parole della guida, pronunciate ieri sera nella calda sala da pranzo del rifugio, sembrano prendersi gioco di me qui, attaccato alla corda fissa tesa lungo la frana che cancellò il famoso pendolo di Comici. Grossi blocchi rimangono ancora lì, instabili all’apparenza eppure immobili, quasi lasciati lì dagli dei a farsi beffe della gravità. Guardo il vuoto tra i miei piedi, le rocce scompaiono poco sotto, lasciando l’occhio libero di vagare fino al nevaio su cui eravamo passati un paio d’ore fa, all’attacco della gola nord-est. Istintivamente le mani si stringono ancora di più attorno alla corda ormai bianca, logorata dagli anni trascorsi nelle intemperie. “Vediamo di tirarci via di qui” penso imprecando tra me e me.

calata in doppia lungo la Cengia degli Dei
“Libera!” L’urlo risuona tra le pareti della gola nord-ovest, mentre sciolgo l’autobloccante che avvolge le mezze corde. Mi sposto verso il centro dell’anfiteatro, lontano dalla verticale della calata. Una ventina di metri sopra di me gli altri armeggiano in sosta per prepararsi alla calata. Lo sguardo corre a sinistra, a ricercare quella sottile striscia erbosa che ci ha guidato fino qui.
La parete nord del Jof Fuart non possiede la perfetta verticalità delle pareti dolomitiche o la slanciata eleganza degli obelischi di granito. Qui siamo nel cuore delle Giulie, lontano dalle luci della ribalta alpinistica, dalle località alla moda. Siamo circondati da un dedalo di gole e speroni, una complessità che si manifesta poco alla volta. La parete ti cattura, ti avvolge con le sue rocce e ti risputa fuori. Ad ogni piega della parete il passo accellera, impaziente di scoprire se la cengia riserverà un largo cammino o una stretta cornice per proseguire nel nostro girotondo. Avvicinandosi alla gola l’ampia cengia erbosa si assottiglia, diventa una stretta cornice che obbliga prima ad un passo cauto e poi a gattonare fino ad arrivare a quell’ancora di salvezza rappresentata da due spit luccicanti. Ora guardo quel precario ballatoio sospeso sugli strapiombi che bordano la gola, e un leggero senso di nausea mi assale. Camminare sulle strade degli dei ci mette di fronte alla nostra mortalità.
C’è luce qui. La coltre di nubi alte che ci ha accompagnato tutta la mattina lungo la parete nord va aprendosi, illuminando il versante ovest delle Cime de lis Codis. La parete di sabbia, precario baluardo a difesa del Mosè pietrificato, è ormai dietro di noi. Dopo manovre ben poco ortodosse, accompagnate da una buona dose di bestemmie, ho agganciato con gioia la splendida sosta a spit. L’ultimo ostacolo è superato, adesso manca poco a quella sottile linea bianca che luccica di fronte a noi, incassata tra pareti verticali. Dopo un corteggiamento durato otto anni ero sceso di lì con gli sci pochi mesi fa, tra le nebbie e le valanghe di un inverno fin troppo generoso. Sulla forcella spazzata dal vento, mentre consumavo in fretta della frutta secca, avevo guardato la cengia invasa dalla neve. Nonostante una buona dose di preoccupazione per la discesa che mi attendeva, mi domandavo ancora una volta quando mi sarebbe stato concesso di percorrerla. Pensavo sarei arrivato stanco, logorato dall’esposizione, dal continuo oscillare tra larghe cengie e sottili ballatoi, ma l’azione ancora una volta scuote ogni certezza.
Mi sento leggero, in forma, preparato; mi gusto lo strano cocktail di adrenalita, presunzione e vanità che mi fornisce l’inseguire i miei sogni tra le rocce. 100 metri mancano, la cengia si restringe, le ghiaie si inclinano spingengo verso l’abisso. Più veloce, manca poco. 50 metri, sotto la parete ormai si vede interamente il canale intasato dalla neve martoriata dai sassi smossi dal loro precario equilibrio che rimbalzano sulle pareti con rumore sordo. Un’ultima curva e salgo sul muretto di pietra che cinge la forcella, sopra di me vigila Mosè. Proprio come quest’inverno, la forcella è spazzata da un vento freddo che risale il canale. Le nuvole rapidamente ci avvolgono, le Giulie scompaiono. Guardo indietro, verso la strada appena percorsa: il mistero è scomparso, l’incanto è rotto.

un tratto di traverso in grande esposizione
Cammino piano tra le ghiaie; da un bel po’ mi sembrano tutte uguali. La nebbia fitta annulla i punti di riferimento, la luce diffusa inizia a diventare più fioca, segno che questa lunga giornata volge al termine. Le pietre smosse cadono oltre il bordo della nostra via senza fare rumore, inghiottite dal vuoto che possiamo solo intuire. Ormai dovremmo esserci quasi, poco fa abbiamo superato il pilastro di uscita del Deye-Peters. I nostri passi risuonano nell’atmosfera ovattata, sospesi in un vuoto senza tempo. Mi guardo attorno, alla ricerca di un luogo familiare. La cengia scende qualche metro, ma ancora non ci siamo. Un piccola, ennesima risalita ed ecco lì un bollo rosso: 8 ore fa eravamo qui, l’anello si è chiuso, abbiamo percorso le strade degli dei.. Nessuna cima, nessun panorama di montagne che si estendono a perdita d’occhio, solo una stretta di mano nel cuore vibrante delle nostre Giulie a sancire il coronamento del desiderio di un ragazzino che sognava ad occhi aperti tra le pagine dei libri.
Pensavo di averne avuto abbastanza, di essere pronto a partire, a stare lontano dalle mie montagne senza rimpianti, ma mi sbagliavo. Non ero pronto, forse non lo sarò mai. Il punto di arrivo è anche il punto di partenza, e proprio come la cengia non ha mai fine ancora una volta raggiunto un obiettivo la mente vola al successivo. Torneremo a valle stanchi, sudati, con i piedi doloranti mentre cala la sera e l’oscurità del bosco ci avvolge. Berremo una birra fresca, pensando a quanto vissuto e sognando ancora nuove cime, di nuovo al punto di partenza. Questo è il nostro girotondo, questa è la via eterna.
“Ho letto da qualche parte che gli antichi germani solevano aprire dei valichi tra le rocce, in modo che gli dei potessero passare piu velocemente. A quelle strade degli dei penso sempre quando sono sulle cenge” Julius Kugy.
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